La dottrina epicurea
Al
tempo di Epicuro le città non erano più governate dai loro cittadini ma dai
grandi monarchi che succedettero a Alessandro Magno. La politica e le questioni
di potere non erano più alla portata del filosofo, e dopo la fondazione del
Museo di Alessandria le scuole di filosofia avevano perso anche il ruolo di
sedi della ricerca scientifica, trasferita nel Museo dal potere regio. Al
filosofo era solamente rimasta la possibilità di essere ammesso a corte come
retore o pedagogo.
Epicuro
rifiuta questo ruolo e non gli rimane che la segregazione nella scuola
e l’elaborazione di indicazioni morali che orientino la vita degli uomini.
Secondo
Epicuro la felicità è possibile solo se si assume come fine ultimo il piacere,
inteso però come soppressione del dolore che si ottiene soddisfacendo gli
stimoli necessari, come la fame e la sete, ed eliminando gli stimoli che per
loro natura non possono essere soddisfatti e, quindi, provocano delusione e
dolore.
In
altre parole l’epicureismo insegna la scienza dell’autodominarsi, che egli
chiama calcolo dei piaceri (Prima di soddisfare un piacere ci si domandi
cosa accadrà dopo.) acquistando, quindi,una funzione
terapeutica (Vana è la parola del filosofo se non allevia qualche sofferenza
umana).
La
filosofia da' luogo ad una saggezza che è pratica della rinuncia, dalla quale
si arriva ad una serena imperturbabilità. (Quando diciamo che il fine è il
piacere non intendiamo i piaceri dei dissoluti e dei gaudenti, ma il non
soffrire quanto al corpo e il non essere turbati quanto all’anima.) E
infatti una delle metafore preferite da Epicuro per
indicare l'obiettivo della vita filosofica é il galhnismos , la quiete
del mare dopo la tempesta , ma questa situazione di quiete é minacciata e
impedita dalle credenze infondate che sovente si generano in noi e procurano
ansie e timori : l' uomo che vive con animo sereno é paragonato a coloro che ,
al sicuro sulla terraferma , osservano distaccati il mare in tempesta , l'
altrui pericolo . La filosofia deve dunque liberarci da queste credenze e
condurci in un porto sicuro senza turbamenti . A tale scopo essa deve
preliminarmente mostrare che cosa si può realmente conoscere e come lo si può
conoscere . La filosofia si articola pertanto in tre parti : dottrina della conoscenza
, fisica ed etica . La dottrina epicurea della conoscenza , o canonica ,
ravvisa il punto di partenza e il criterio , o canone , del conoscere nelle
percezioni sensibili , le quali sono prodotte da qualcosa di esterno o interno
a noi . Le sensazioni sono sempre vere , non ingannano mai sulla
rappresentazione sensibile dell'oggetto , ma non tutte sono egualmente evidenti
. Dalle sensazioni ripetute e conservate nella memoria
derivano i concetti che Epicuro chiama anticipazioni o prolessi.
L'esperienza si genera dalla conservazione nella memoria di tali concetti.
L'errore
nasce , invece , quando le parole che usiamo significano concetti che non
corrispondono all'oggetto , e ciò può dipendere dall'opinione personale, che può essersi formata in seguito e
sovrapposta alla sensazione; essa deve quindi essere, per
essere considerata vera, necessariamente confermata dai sensi.
La percezione e i concetti sono collegabili tra di loro in modo da dar luogo a inferenze
, che permettono di risalire da ciò che é chiaro a ciò che non lo é : questo
punto é di estrema importanza per costruire i capisaldi della dottrina fisica.
La
dottrina di Epicuro
Il
fine della dottrina di Epicuro è
comunque quello di permettere al saggio epicureo di vivere in un mondo
privo di speranze deluse e paure, preoccupazioni e progetti irraggiungibili;
Epicuro intende persino liberare i suoi discepoli dalla paura della morte,
come è evidente dalla sua celebre frase: "Finché siamo vivi la morte
per noi non esiste, dopo morti siamo noi a non esistere più”.
Anche
la paura degli dèi, poi, viene liquidata allo stesso modo: come la
liberazione della paura della morte passa attraverso la “retta conoscenza” di
essa, così è per il timore degli dèi, da cui si viene liberati attraverso la
conoscenza della loro vera natura.
A
questo punto, privo di paure il saggio è libero di coltivare la sua serenità
privata nella pace dei desideri.
Ciò
non significa che il saggio sia
egoista; al contrario, pratica il culto
dell’amicizia, rispetta la giustizia ed è altruista. E’ sconcertante la massima
di Epicuro: "Non solo è più bello, ma anche più piacevole fare il bene
anziché riceverlo”. Addirittura Il piacere è assunto a fondamento e a
giustizia della solidarietà tra tutti gli uomini.
Le
grandi amicizie epicuree furono comunque famose in tutto il mondo antico per la
loro nobiltà. Diogene Laerzio descrive infatti Epicuro come amante dei
genitori, fedele agli amici e solidale.
E
persino Seneca, filosofo della scuola avversa, la scuola stoica, affermò:
"Le grandi anime epicuree non le fece la dottrina, ma l’assidua compagnia
di Epicureo”.
Epicuro
ammette l'esistenza degli dei. Un argomento a favore di essa é dato dal
consenso di tutti gli uomini: ciò su cui tutti gli uomini sono concordi deve essere
vero. Inoltre, tutti ritengono che gli dei siano immortali, felici e dotati di
figura umana. Ma queste credenze non sono altro che prolessi, concetti derivati
dall'esperienza. Un'altra dimostrazione dell'esistenza divina é poi data dai
sogni, dove compaiono anche le divinità, che sono per Epicuro antropomorfi,
uguali a come ci appaiono nei sogni.
Per Epicuro la divinità non si interessa
minimamente delle vicende umane: sarebbe un'autodiminuzione occuparsi di tali
cose, ne lederebbe la beatitudine. Tuttavia dire che gli dei non si curano
delle vicende umane non vuol dire che siano irrilevanti: essi hanno una vita
piena di felicità e l'uomo imitandoli può condurne una uguale alla loro: da qui
nasce la teoria secondo cui l'uomo é uguale agli dei e può assimilarsi ad essi
(viene ripreso il concetto dell'“omoiosis qeo”, il diventare come un Dio, di Platone)
L'unica
differenza tra uomo e dei é che loro hanno la vita eterna ( e di conseguenza la
felicità eterna ), l'uomo no . “Ma che cosa mi importa se c'è la felicità
quando io non ci sono più? (...) Da vivi , possiamo godere di una felicità pari
a quella degli dei anche se si sia ricevuta una diminuzione ; ma se non si é in
grado di sentire , in che modo si può ricevere una diminuzione ?” ( Lettera
alla madre ).
Se
per Aristotele la divinità muoveva il mondo, per Epicuro essa muove gli uomini,
che devono tentare di imitarla. Tra l'altro questa concezione della divinità
che non interviene nel mondo umano sortisce anche l'effetto di dissipare il
timore per la divinità, che non va temuta in quanto non interverrà mai nel
nostro mondo. Per Epicuro la religione tradizionale degenera in superstizione e
atteggiamenti ridicoli dati dalla paura che l'uomo prova nei confronti di dio:
“non é irreligioso chi rinnega gli dei del volgo, ma chi le opinioni del volgo
applica agli dei” dice Epicuro .
Epicuro
utilizza a proposito degli dei che appaiono nel sonno la dottrina degli
effluvi; ma essi, secondo Epicuro, non sono composti come gli altri
oggetti, altrimenti sarebbero anch'essi sottoposti ai processi di
disgregazione; sono immortali, immuni da dolori, e vivono beati in quelli che
in latino saranno detti intermundia , gli spazi che separano tra loro gli
infiniti mondi. E appunto la condizione di beatitudine, ossia l'assenza di ogni
genere di turbamento, é usata da Epicuro per dimostrare che gli dei non si
occupano del mondo e delle cose umane. Attribuire agli dei il governo del mondo
equivarrebbe a privarli della beatitudine, che é propria della loro condizione
divina .
Altro
argomento, forse di origine epicurea, contro la provvidenza divina é quello che
fa leva sulla presenza del male nel mondo . Se gli dei intervengono nelle
vicende del mondo, perchè non eliminano il male ? Perchè non possono, perchè
non vogliono o perchè nè possono nè vogliono?
Se
non potessero significherebbe che essi
sono impotenti; se non volessero che sono invidiosi, ossia non sono
divinità buone; ma impotenza e invidia sono caratteristiche incompatibili con
la nozione di divinità. D'altra parte se possono e vogliono, come mai il male
continua a essere presente nel mondo? L'unica soluzione che consente di non
attribuire alla divinità caratteristiche negative consiste, allora, nel
riconoscere che gli dei non si occupano del mondo e delle faccende umane,
perché in fondo sarebbe
un'autodiminuzione da parte loro (come direbbe Aristotele). Gli dei sono indifferenti
all'uomo, nè minacciosi nè benigni, e la natura non é un ordine protettivo nel
quale gli esseri umani sono inseriti. Con queste argomentazioni Epicuro ritiene
di eliminare uno dei timori che attanagliano gli uomini e impediscono loro di
raggiungere la serenità: il timore degli dei, di un loro intervento e della
loro possibilità di assegnare premi o castighi. Ma gli uomini vivono anche in
preda ad un altro timore, il timore della morte, con il conseguente desiderio
di immortalità; al filosofo, invece, interessa la qualità, non la quantità
della vita. Epicuro cerca quindi di elaborare un'argomentazione che liberi gli
uomini anche da questo timore. Le premesse di essa sono date dai principi della
dottrina fisica. L'uomo é un composto di atomi e vuoto, in quanto anche l'anima
é costituita da un tipo particolare di atomi di forma sferica. La morte
equivale alla disgregazione di questo composto; ma con essa viene meno ogni
possibilità da parte dell'uomo di percepire questo evento, perchè la
sensibilità é legata alla condizione di integrità di quel composto atomico che
é l'uomo. Questo punto é compendiato da Epicuro nell'affermazione che la morte
non va temuta, perchè quando ci siamo noi non c'é lei, e quando c'é lei non ci
siamo noi? L' uomo di fronte alla morte deve ragionare così: “Se la vita
trascorsa é stata colma di gioia ci si può ritirare da essa come un convitato
sazio e felice dopo un lauto banchetto; se al contrario é stata segnata da
dolori e tristezze, perchè desiderare che essa prosegua? Solo gli stolti
vogliono ad ogni costo continuare a vivere, anche se nulla di nuovo li può
attendere perchè accadono sempre e solo le stesse cose!”
La
liberazione da questi due timori é per Epicuro condizione fondamentale per
raggiungere il fine della vita umana, essa fa parte del quadruplice farmaco (
tetrafarmakos ) predisposto dalla filosofia, il quale provvede a liberare anche
da altri due timori, quello del dolore e dell'irraggiungibilità della felicità.
In altre parole nella teoria del quadrifarmaco Epicuro dice che la
filosofia:
Libera
l'uomo dalla paura degli dèi, che non si curano delle vicende umane;
Libera l'uomo dalla paura della morte, che
é semplicemente una disgregazione di atomi;
Dimostra la brevità e provvisorietà del dolore:
il dolore se é intenso é breve, se é lungo non é intenso e se é intensissimo porta in fretta alla morte ,
la quale é assoluta insensibilità;
Dimostra la facile raggiungibilità della
felicità, che consiste nel piacere.
Questo
piacere, non contrario del dolore, bensì contraddittorio (se c'è uno non può
esistere l'altro) è definito in primo luogo come assenza di dolore ( alupia ) e
caratterizza la condizione di chi gode di una buona condizione di salute fisica
e psichica . Il dolore , invece , sia fisico sia psichico , é turbamento di
questa condizione naturale .Turbamenti di questo genere sono per esempio i
timori degli dei e della morte , prodotti da false credenze.
Come si è già
notato, piacere e felicità richiedono l'uso della ragione, e sono quindi frutto
della saggezza; e come per tutta la filosofia greca, anche per Epicuro essere
saggi implica una conoscenza del Tutto. Per Epicuro, però, questa conoscenza
si basa sulla fisica, differenziandosi da Aristotele e Platone, che la fondano sulla metafisica.
La fisica epicurea
è, come abbiamo già detto (dottrina generale) caratterizzata dal
risalire , mediante ragionamento , da ciò che é evidente ai sensi a principi
che tali non sono, ossia gli atomi e il vuoto. Epicuro riprende per lo più
questi concetti da Democrito e ritiene che un numero infinito di
corpi indivisibili , che si muovono entro il vuoto infinito, é ciò che può
spiegare il mondo fisico quale appare ai nostri sensi. Egli inferisce questa
tesi a partire dall'esperienza, la quale ci attesta che nulla può nascere dal
nulla e nulla può finire nel nulla, altrimenti il tutto si sarebbe dissolto col
tempo: di qui si giunge alla conclusione che l'universo é sempre stato e sempre
sarà quale é ora. D'altra parte, é evidente ai sensi che i corpi dotati
esistono e sono dotati, sicchè possiamo inferirne l'esistenza del vuoto, che
non é di per sé evidente e contro alla quale aveva già dimostrato Melisso. Infatti se il vuoto non esiste; non può esistere il movimento; ma il
movimento esiste, e tutti possiamo vederlo, dunque esiste anche per forza il
vuoto. I corpi, a loro volta, sono suscettibili di disgregazione, ma poichè
nulla scompare nel nulla, ciò significa che essi sono composti di entità che
permangono indistruttibili: queste entità sono gli atomi. Gli atomi sono di
forme innumerevoli, ma non sono dotati di qualità come colore, temperatura e
così via. Per Democrito gli atomi, probabilmente, non
avevano peso, nè esisteva una direzione privilegiata del loro movimento.
Epicuro, invece, attribuisce peso agli atomi, forse in base alla tesi che un
corpo privo di peso non é in grado di muoversi. Nell'universo infinito non ci
sono un centro, un alto, un basso assoluti: ma per Epicuro si può parlare di un
alto e basso relativi ed é appunto verso il basso che gli atomi si muovono
grazie al loro peso. Ma se gli atomi si muovono verso il basso verso linee
parallele, diventa impossibile la formazione di corpi, perché essi non
potrebbero incontrarsi e dare luogo ad aggregazioni. A questo proposito Epicuro
avrebbe introdotto la dottrina del cinamen o “declinazione spontanea” .
Attraverso di essa, egli attribuiva agli atomi anche una tendenza a deviare
casualmente dal loro moto perpendicolare verso il basso. In tal modo, gli
eventi e, in particolare le aggregazioni tra atomi che danno luogo alla
formazione dei corpi composti, perdono ogni carattere di necessità. Riprendeva
la dottrina democritea dell'atomismo e dell'infinità
servendosi però dei concetti di alto e basso - sebbene nell'infinito essi non
esistano – a differenza di Democrito che affermava che gli atomi si muovessero con moti
corpuscolari.
Si può dire che la
dottrina del Clinamen, essendo fondata sull'imprevedibilità di questo
moto discendente casuale, sia una sorta di correzione del meccanicismo, ossia
del mondo visto come grande macchina dove ogni semplice avvenimento ha
un'enorme importanza. Questa contraddizione deriva dal fatto che Epicuro è
totalmente dipendente da altri filosofi, per le sue teorie fisiche, che sono
forse il punto debole della sua dottrina.
Con la teoria della
“declinazione spontanea” Epicuro ha anticipato, comunque, per alcuni aspetti la
fisica moderna: il concetto di clinamen é infatti simile al principio di
indeterminazione definito da un fisico moderno tedesco,Werner Heisenberg: “E'
impossibile conoscere simultaneamente la posizione esatta e la esatta quantità
di moto di una particella subatomica. Tanto più esattamente conosciamo la
posizione, tanto meno sicuri siamo della quantità di moto e viceversa”. Questo
perché l'osservazione stessa che si effettua di una cosa la modifica già: è già
legata a noi per il fatto che la si osservi; la situazione delle particelle é
indeterminata.
E le sensazioni
stesse sono appunto legate all'azione degli atomi; riprendendo una teoria
democritea, quella degli effluvi, Epicuro ci dice che immagini
costituite da atomi e prodotte da corpi – i simulacri – colpiscono i
nostri sensi e la nostra anima, che è anch'essa costituita da atomi, se pur
piccolissimi. In questo modo, tutte le attività dell'anima diventerebbero
risultato di movimenti degli atomi.
La struttura dell'universo é spiegabile univocamente, secondo Epicuro, soltanto mediante la nozione di atomo e vuoto presenti nell'universo. Egli respinge la costruzione di modelli astronomici e matematici per spiegare i fenomeni celesti; su questo punto egli conduce una polemica esplicita nei confronti dell'Accademia Platonica, ma di fatto si allontana anche dalla pratica degli astronomi del suo tempo. La cosmologia di Epicuro poggia su un assunto razionale, in quanto esclude qualsiasi intervento divino e qualsiasi antropoformismo nella concezione degli astri e dei corpi celesti. A differenza di Aristotele, Epicuro non ammette alcuna materia privilegiata per i corpi celesti.
Nella “Natura”, poi,
conduce una serrata polemica contro la cosmologia platonica
del “Timeo”. Egli rifiuta la composizione degli elementi e del cosmo sulla base
dei 5 poliedri regolari, che Platone
non é stato in grado di dimostrare indivisibili: se non sono indivisibili, dice
Epicuro, perchè mai si dovrebbe ritenere che le altre figure siano formate da
questi, se questi a loro volte sono formati da altri?
Per quanto riguarda
la metereologia, ossia quei fenomeni e eventi lontani da noi , dei quali la
causa non é evidente , Epicuro ritiene che siano possibili molteplici
spiegazioni, che risultano tutte accettabili, purchè in accordo con i fenomeni
e non smentibili da parte di altri fenomeni. Epicuro rifiuta la spiegazione di
questi eventi in termini di teleologia ( o finalismo ), alla maniera di Platone
e di Aristotele: essi non avvengono in vista di un fine. Soprattutto egli
esclude che gli dei agiscano come cause o agenti provvidenziali sul mondo degli
uomini; in tal modo egli si allontana sia dalle credenze della religione
popolare, sia dalle teorie elaborate in proposito dai filosofi.
La felicità e il
piacere - Lettera a Meneceo
"Meneceo,
Mai si è troppo giovani o troppo vecchi per la conoscenza della felicità. A
qualsiasi età è bello occuparsi del benessere dell'animo nostro. Chi sostiene
che non è ancora giunto il momento di dedicarsi alla conoscenza di essa, o che
ormai è troppo tardi, è come se andasse dicendo che non è ancora il momento di
essere felice, o che ormai è passata l'età. Ecco che da giovani come da vecchi
è giusto che noi ci dedichiamo a conoscere la felicità. Per sentirci sempre
giovani quando saremo avanti con gli anni in virtù del grato ricordo della
felicità avuta in passato, e da giovani, irrobustiti in essa, per prepararci a
non temere l'avvenire. Cerchiamo di conoscere allora le cose che fanno la
felicità, perché quando essa c'è tutto abbiamo, altrimenti tutto facciamo per
possederla. Pratica e medita le cose che ti ho sempre raccomandato: sono
fondamentali per una vita felice. Prima di tutto considera l'essenza del divino
materia eterna e felice, come rettamente suggerisce la nozione di divinità che
ci è innata. Non attribuire alla divinità niente che sia diverso dal sempre
vivente o contrario a tutto ciò che è felice, vedi sempre in essa lo stato
eterno congiunto alla felicità. Gli dei esistono, è evidente a tutti, ma non
sono come crede la gente comune, la quale è portata a tradire sempre la nozione
innata che ne ha. Perciò non è irreligioso chi rifiuta la religione popolare,
ma colui che i giudizi del popolo attribuisce alla divinità. Tali giudizi, che
non ascoltano le nozioni ancestrali, innate, sono opinioni false. A seconda di
come si pensa che gli dei siano, possono venire da loro le più grandi
sofferenze come i beni più splendidi. Ma noi sappiamo che essi sono
perfettamente felici, riconoscono i loro simili, e chi non è tale lo
considerano estraneo. Poi abituati a pensare che la morte non costituisce nulla
per noi, dal momento che il godere e il soffrire sono entrambi nel sentire, e
la morte altro non è che la sua assenza. L'esatta coscienza che la morte non
significa nulla per noi rende godibile la mortalità della vita, senza l'inganno
del tempo infinito che è indotto dal desiderio dell'immortalità. Non esiste
nulla di terribile nella vita per chi davvero sappia che nulla c'è da temere
nel non vivere più. Perciò è sciocco chi sostiene di aver paura della morte,
non tanto perché il suo arrivo lo farà soffrire, ma in quanto l'affligge la sua
continua attesa. Ciò che una volta presente non ci turba, stoltamente atteso ci
fa impazzire. La morte, il più atroce dunque di tutti i mali, non esiste per
noi. Quando noi viviamo la morte non c'è, quando c'è lei non ci siamo noi. Non
è nulla né per i vivi né per i morti. Per i vivi non c'è, i morti non sono più.
Invece la gente ora fugge la morte come il peggior male, ora la invoca come
requie ai mali che vive. Il vero saggio, come non gli dispiace vivere, così non
teme di non vivere più. La vita per lui non è un male, né è un male il non
vivere. Ma come dei cibi sceglie i migliori, non la quantità, così non il tempo
più lungo si gode, ma il più dolce. Chi ammonisce poi il giovane a vivere bene
e il vecchio a ben morire è stolto non solo per la dolcezza che c'è sempre
nella vita, anche da vecchi, ma perché una sola è la meditazione di una vita
bella e di una bella morte. Ancora peggio chi va dicendo: bello non essere mal
nato, ma, nato, al più presto varcare la soglia della morte. Se è così convinto
perché non se ne va da questo mondo? Nessuno glielo vieta se è veramente il suo
desiderio. Invece se lo dice così per dire fa meglio a cambiare argomento.
Ricordiamoci poi che il futuro non è del tutto nostro, ma neanche del tutto non
nostro. Solo così possiamo non aspettarci che assolutamente s'avveri, né allo
stesso modo disperare del contrario. Così pure teniamo presente che per quanto
riguarda i desideri, solo alcuni sono naturali, altri sono inutili, e fra i
naturali solo alcuni quelli proprio necessari, altri naturali soltanto. Ma fra
i necessari certi sono fondamentali per la felicità, altri per il benessere
fisico, altri per la stessa vita. Una ferma conoscenza dei desideri fa
ricondurre ogni scelta o rifiuto al benessere del corpo e alla perfetta
serenità dell'animo, perché questo è il compito della vita felice, a questo noi
indirizziamo ogni nostra azione, al fine di allontanarci dalla sofferenza e
dall'ansia. Una volta raggiunto questo stato ogni bufera interna cessa, perché
il nostro organismo vitale non è più bisognoso di alcuna cosa, altro non deve
cercare per il bene dell'animo e del corpo. Infatti proviamo bisogno del
piacere quando soffriamo per la mancanza di esso. Quando invece non soffriamo
non ne abbiamo bisogno. Per questo noi riteniamo il piacere principio e fine
della vita felice, perché lo abbiamo riconosciuto bene primo e a noi congenito.
Ad esso ci ispiriamo per ogni atto di scelta o di rifiuto, e scegliamo ogni
bene in base al sentimento del piacere e del dolore. E' bene primario e
naturale per noi, per questo non scegliamo ogni piacere. Talvolta conviene
tralasciarne alcuni da cui può venirci più male che bene, e giudicare alcune
sofferenze preferibili ai piaceri stessi se un piacere più grande possiamo
provare dopo averle sopportate a lungo. Ogni piacere dunque è bene per sua
intima natura, ma noi non li scegliamo tutti. Allo stesso modo ogni dolore è
male, ma non tutti sono sempre da fuggire. Bisogna giudicare gli uni e gli
altri in base alla considerazione degli utili e dei danni. Certe volte
sperimentiamo che il bene si rivela per noi un male, invece il male un bene.
Consideriamo inoltre una gran cosa l'indipendenza dai bisogni non perché sempre
ci si debba accontentare del poco, ma per godere anche di questo poco se ci capita di
non avere molto, convinti come siamo che l'abbondanza si gode con più dolcezza
se meno da essa dipendiamo. In fondo ciò che veramente serve non è difficile a
trovarsi, l'inutile è difficile. I sapori semplici danno lo stesso piacere dei
più raffinati, l'acqua e un pezzo di pane fanno il piacere più pieno a chi ne
manca. Saper vivere di poco non solo porta salute e ci fa privi d'apprensione
verso i bisogni della vita ma anche, quando ad intervalli ci capita di menare
un'esistenza ricca, ci fa apprezzare meglio questa condizione e indifferenti
verso gli scherzi della sorte. Quando dunque diciamo che il bene è il piacere,
non intendiamo il semplice piacere dei goderecci, come credono coloro che
ignorano il nostro pensiero, o lo avversano, o lo interpretano male, ma quanto
aiuta il corpo a non soffrire e l'animo a essere sereno. Perché non sono di per
se stessi i banchetti, le feste, il godersi fanciulli e donne, i buoni pesci e
tutto quanto può offrire una ricca tavola che fanno la dolcezza della vita
felice, ma il lucido esame delle cause di ogni scelta o rifiuto, al fine di
respingere i falsi condizionamenti che sono per l'animo causa di immensa
sofferenza. Di tutto questo, principio e bene supremo è l'intelligenza delle
cose, perciò tale genere di intelligenza è anche più apprezzabile della stessa
filosofia, è madre di tutte le altre virtù. Essa ci aiuta a comprendere che non
si dà vita felice senza che sia intelligente, bella e giusta, né vita
intelligente, bella e giusta priva di felicità, perché le virtù sono
connaturate alla felicità e da questa inseparabili. Chi suscita più ammirazione
di colui che ha un'opinione corretta e reverente riguardo agli dei, nessun
timore della morte, chiara coscienza del senso della natura, che tutti i beni
che realmente servono sono facilmente procacciabili, che i mali se affliggono
duramente affliggono per poco, altrimenti se lo fanno a lungo vuol dire che si
possono sopportare ? Questo genere d'uomo sa anche che è vana opinione credere
il fato padrone di tutto, come fanno alcuni, perché le cose accadono o per
necessità, o per arbitrio della fortuna, o per arbitrio nostro. La necessità è
irresponsabile, la fortuna instabile, invece il nostro arbitrio è libero, per
questo può meritarsi biasimo o lode. Piuttosto che essere schiavi del destino
dei fisici, era meglio allora credere ai racconti degli dei, che almeno offrono
la speranza di placarli con le preghiere, invece dell'atroce, inflessibile
necessità. La fortuna per il saggio non è una divinità come per la massa - la
divinità non fa nulla a caso - e neppure qualcosa priva di consistenza. Non
crede che essa dia agli uomini alcun bene o male determinante per la vita
felice, ma sa che può offrire l'avvio a grandi beni o mali. Però è meglio
essere senza fortuna ma saggi che fortunati e stolti, e nella pratica è
preferibile che un bel progetto non vada in porto piuttosto che abbia successo
un progetto dissennato. Medita giorno e notte tutte queste cose e altre
congeneri, con te stesso e con chi ti è simile, e mai sarai preda dell'ansia.
Vivrai invece come un dio fra gli uomini. Non sembra più nemmeno mortale l'uomo
che vive fra beni immortali".
Epicuro ha sufficienti testimoni della sua immensa bontà verso tutti: la patria che lo onorò con statue di bronzo, tanti amici il cui numero è pari a popolazioni di città intere, tutti coloro che ebbero con lui intima frequentazione, avvinti dall'incanto della sua dottrina (...) la prova della ininterrotta tradizione della sua scuola che, contrariamente a tutte le altre, ancora dura e il vasto numero dei discepoli che si trasmettono lo scolarcato, la gratitudine verso i suoi genitori, la generosità verso i fratelli, la bontà verso i servi, evidente dal suo testamento e dal fatto che essi partecipavano al suo insegnamento filosofico (...) e più in generale la sua benevolenza verso chiunque. E' difficile rappresentare a parole l'intensità della sua devozione verso gli dei e del suo amor di patria. Addirittura per eccesso di modestia non prese parte alla vita politica. Nonostante i gravi accadimenti politici che allora si abbatterono sulla Grecia, egli non l'abbandonò mai.
Nel
306 a.C. si vide sorgere in Atene, oltre all' Accademia e al Liceo, un'altra
scuola filosofica, il Giardino. Fondatore di essa fu Epicuro, nato a Samo da
genitori ateniesi nel 341 a.C. Da giovane, nella vicina Teo, entrò a far parte
della cerchia di Nausifane, che si richiamava all'insegnamento di Democrito e
che in seguito Epicuro avrebbe criticato. A diciotto anni si dovette recare ad
Atene per compiere i due anni di servizio militare richiesti agli efebi.
Successivamente fondò una piccola comunità filosofica a Militene, nell'isola di
Lesbo, e poi a Lampsaco. Nel 307-306, tornato ad Atene, acquistò una casa con
un giardino e vi fissò la sua scuola, una comunità filosofica di amici, di cui
facevano parte anche donne e schiavi, che conducevano una frugale esistenza in
comune, lontani dalla vita pubblica.
Diogene Laerzio ci
dice: “Per un certo tempo filosofò insieme con gli
altri maestri, poi cominciò a insegnare per suo conto fondando la scuola che da
lui prese nome. Egli stesso racconta che si accostò per la prima volta alla
filosofia all'età di quattordici anni. Apollodoro l'epicureo, nel primo libro
della Vita di Epicuro afferma che si dedicò alla filosofia deluso dai maestri
di scuola che non furono in grado di spiegargli il Caos in Esiodo. Ermippo però
afferma che egli stesso fu maestro di scuola e che in seguito alla lettura
dell'opera di Democrito s'indirizzò decisamente alla filosofia. Gli
amici accorrevano a lui da ogni parte e convivevano con lui nel Giardino, come
riferisce anche Apollodoro (Diocle nel terzo libro del suo Sommario dice che
Epicuro aveva comprato il Giardino per ottanta mine), conducendo una vita molto
semplice e frugale. Si contentavano - dice - di una tazza di vino da poco, ma
di solito non bevevano che acqua. Apollodoro aggiunge che Epicuro rifiutava la
comunanza dei beni, quindi anche quanto diceva Pitagora, secondo il quale ogni
bene degli amici deve essere in comune. Epicuro sosteneva che ciò comportava
sfiducia e senza fiducia non c'è amicizia”.
Alla sua morte,
avvenuta nel 271 a.C., la casa e il giardino passarono ad Ermarco, che divenne
il caposcuola, secondo le stesse disposizioni testamentarie del maestro. La
fedeltà e la venerazione per il capostipite fu un contrassegno tipico e
costante della scuola epicurea e la figura di Epicuro finì per sfumare nella
leggenda e nel mito, per essere addirittura caricata di valori divini: per i
discepoli degli anni a venire Epicuro non fu più solo il maestro, ma una sorta
di divinità.
Epicuro ha sufficienti testimoni della sua immensa bontà verso tutti: la patria che lo onorò con statue di bronzo, tanti amici il cui numero è pari a popolazioni di città intere, tutti coloro che ebbero con lui intima frequentazione, avvinti dall'incanto della sua dottrina (...) la prova della ininterrotta tradizione della sua scuola che, contrariamente a tutte le altre, ancora dura e il vasto numero dei discepoli che si trasmettono lo scolarcato, la gratitudine verso i suoi genitori, la generosità verso i fratelli, la bontà verso i servi, evidente dal suo testamento e dal fatto che essi partecipavano al suo insegnamento filosofico (...) e più in generale la sua benevolenza verso chiunque. E' difficile rappresentare a parole l'intensità della sua devozione verso gli dei e del suo amor di patria. Addirittura per eccesso di modestia non prese parte alla vita politica. Nonostante i gravi accadimenti politici che allora si abbatterono sulla Grecia, egli non l'abbandonò mai.
Epicuro compose
numerosi scritti. Di molti di essi abbiamo soltanto titoli o scarsi frammenti: Sul
canone, Sui generi di vita, Sul fine, Su ciò che si deve
scegliere o fuggire. L'opera più importante sono i 37 libri Sulla natura,
scritti in un lungo arco di tempo; su di essa Epicuro tornò incessantemente,
riprendendo problemi e approfondendo temi già ritrattati in precedenza. In
quest'opera era sviluppato il suo insegnamento in tutti i suoi aspetti, non
soltanto in relazione alle questioni della filosofia della natura, ma anche di
gnoseologia e di etica. Di essa non rimangono che frammenti papiracei,
rinvenuti nella villa di un ricco romano epicureo, situata ad Ercolano e colpita
dall'eruzione del Vesuvio nel primo secolo d.C. In essa soggiornò nel primo
secolo a.C. l'epicureo Filodemo di
Gadara, che vi costruì una ricca biblioteca, in gran parte di testi epicurei .
Integralmente
conservate nel decimo libro delle Vite dei filosofi di Diogene Laerzio
sono invece le Lettere di Epicuro, indirizzate a tre diversi destinatari a Erodoto (sui principi della dottrina
atomistica), a Pitocle (sulla meteorologia), e a Meneceo (sull'etica).
Le lettere espongono in forma compendiata i capisaldi della sua dottrina e
hanno lo scopo di consentire ai principianti di fissarsi in mente gli elementi
fondamentali della sua filosofia e ai più progrediti di richiamarli e usarli
nelle varie circostanze della vita. Aspetto tipico dell'attività letteraria
della scuola divennero, quindi, esposizioni riassuntive o raccolte di massime
estratte dalle opere del maestro. Di questo tipo é una raccolta di 40 Massime
capitali, conservateci da Diogene Laerzio, mentre un codice vaticano
contiene le cosiddette Sentenze vaticane.